domenica 27 luglio 2014

Trattato sulla Tolleranza

Voltaire era un genio, su questo non si può discutere. Fautore del pluralismo, della libertà, della tolleranza, nonostante non abbia mai formulato una vera e propria teoria filosofica, è riuscito comunque a diventare uno dei più importanti pensatori di sempre.

Il breve Trattato sulla Tolleranza uscì nel 1763. Voltaire lo scrisse dopo un episodio di violenza inaudita: il 13 ottobre 1761 il giovane Marc-Antoine Calas venne trovato morto; dell'omicidio (in realtà suicidio) vennero incolpati il padre, la madre, il fratello e un amico di famiglia. Il movente del delitto sarebbe stato il desiderio di Marc-Antoine di convertirsi al cattolicesimo, cosa che il padre ugonotto non poteva tollerare. Dopo un processo sommario, i giudici di Tolosa condannarono il vecchio Jean Calas alla pena capitale, mentre i suoi complici vennero espulsi dalla città e privati di tutti i loro beni.

Voltaire inizia il suo trattato mostrando l'infondatezza e l'assurdità delle poche accuse mosse contro i famigliari della vittima, per poi passare a una serrata accusa contro il fanatismo religioso. Innanzitutto, l'autore porta vari esempi di tolleranza religiosa in diversi Stati e tra diversi popoli dell'antichità; arriva così a sostenere che è necessaria l'istituzione di uno Stato laico in cui la sfera religiosa appartenga solo alla sfera privata e che ponga fine ai conflitti religiosi grazie a delle leggi che propugnino il rispetto e la tolleranza. Voltaire, inoltre, sottolinea che il cristianesimo a lui contemporaneo è completamente diverso da quello insegnato da Gesù, in quanto non più basato sull'amore ma sull'intolleranza. Interessantissima la sua visione della storia: per Voltaire essa è una serie di violenze e menzogne dovute alla superstizione e al fanatismo religioso (tecnica questa del revisionismo storico usata anche in epoche recenti, come dal nazionalismo ottocentesco o dai regimi totalitari nel Novecento). Il trattato si chiude con una preghiera a Dio, in cui Voltaire Gli chiede di illuminare coloro che hanno peccato contro di Lui servendosi del Suo nome per uccidere chiunque Lo ami in modo diverso dal suo.

Il Trattato sulla Tolleranza è un'opera da prendere come esempio per capire che non esiste un'unica verità, ma che bisogna essere intellettualmente aperti, così da essere tolleranti verso chi ha un'altra visione delle cose. Ancora oggi i conflitti religiosi lacerano il mondo e l'intolleranza colpisce molte categorie di persone, come gli stranieri, gli omosessuali ecc. La ragione umana dovrebbe aver raggiunto già da tempo un alto livello di sviluppo, ma a quanto pare non è così e spesso si adottano atteggiamenti da inquisitore medioevale. Non ho altro da aggiungere che queste poche parole: leggete questo testo e meditate.

...siamo abbastanza religiosi per odiare e perseguitare, ma non abbastanza per amare e soccorrere.”

...le tigri non sbranano che per mangiare, mentre noi ci siamo sterminati per dei paragrafi.”

...bisogna considerare tutti gli uomini come nostri fratelli.”

mercoledì 23 luglio 2014

Notturno

Il libro di cui vado a parlare quest'oggi è Notturno di D'Annunzio.

L'opera raccoglie le memorie della sua lunga convalescenza in ospedale in seguito ad un incidente di volo che gli ha danneggiato un occhio, costringendolo alla più totale immobilità. La voglia di scrivere, però, era troppa e l'autore annotava i suoi pensieri

sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. Sento con l'ultima falange del mignolo destro l'orlo di sotto e me ne servo come d'una guida per conservare la dirittura.”

Notturno è diviso in tre parti chiamate “offerte”. Nella prima il nucleo centrale è quello della morte e in particolare dei funerali del suo amico e compagno di volo Giuseppe Miraglia. Nella seconda si passa ai ricordi di guerra, mentre nella terza si parla del presente e della possibilità di tornare alla “luce”. Notturno si chiude con un'Annotazione, nella quale vengono ripercorse le modalità di composizione dell'opera.

Questo è uno dei libri più brutti che io abbia mai letto. Le nuove tecniche di scrittura apportate da D'Annunzio, come le frasi brevi in cui va a capo ad ogni punto, mi innervosiscono molto. Trovo il tutto pieno di vuota retorica e le immagini più “poetiche” stonano nel contesto di ciò di cui sta parlando e le trovo, inoltre, poco adatte alla prosa. Il fatto che sia sempre lui il “protagonista” mi urta: quando, ad esempio, racconta dei funerali dell'amico Miraglia o mentre ricorda la madre, D'Annunzio porta tutta l'attenzione su di sé, svalutando ciò che lo circonda se non in relazione a ciò che LUI prova, a ciò che LUI fa ecc. Al centro di tutto c'è sempre e solo Gabriele con le sue sensazioni, i suoi sentimenti e i suoi gesti più forti, più sentiti e più importanti di tutto il resto. A differenza delle altre opere di D'Annunzio da me lette, qui il suo egocentrismo tocca livelli assurdi. Per non parlare di tutta quella solfa di esaltazione della patria...

Comunque sia, questo è il mio pensiero e sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate voi. Attendo le vostre impressioni!

martedì 15 luglio 2014

L'ultimo dei Mohicani

L'ultimo dei Mohicani di Cooper è un romanzo che ha lasciato in me delle impressioni molto diverse tra loro. Ma procediamo con ordine.

Siamo intorno al 1750 nel Nord America, dove imperversano le lotte tra Francesi e Inglesi e tra gli Indiani loro alleati. Il maggiore Heyward ha l'incarico di portare a Munro le sue due figlie Cora e Alice, entrambe belle, dolci e virtuose. Durante il loro viaggio incontrano dapprima il cantore Gamut e poi il cacciatore Occhio di Falco, un “bianco” come loro, e i suoi due inseparabili compagni, i pellerossa Chingachguk e suo figlio Uncas, l'ultimo dei Mohicani. Questi avvertono Heyward che il suo accompagnatore, l'Hurone Magua, è un essere infido da cui ci si deve guardare e, proprio da questo punto, cominciano tutte le avventure e le guerre che porteranno alla sofferta conclusione dell'opera.

L'ultimo dei Mohicani è un grande esempio di unione fra i popoli, anche sotto il punto di vista religioso, e di integrazione, come dimostrano le parole di Munro:

Dite a quelle donne buone e gentili (donne del popolo Delaware) che un vecchio col cuore spezzato porge loro i suoi ringraziamenti. Dite loro che l'Essere che sotto nomi diversi tutti adoriamo si ricorderà della loro carità; e che non sarà lontano il momento in cui potremo riunirci attorno al Suo trono senza distinzione di sesso, di rango o di colore.”

Tutto questo si riscontra anche nelle parole e negli atteggiamenti di Occhio di Falco, così unito ai suoi due amici “selvaggi”.

La descrizione dei paesaggi, delle varie tribù indiane e delle loro usanze è magistrale e vale più di tutta la vera e propria trama.

La cosa che mi ha innervosita è il motivo da cui prende il via la storia, cioè la presenza delle due fanciulle: tutti i guai sono causati da loro e, sinceramente, le avrei totalmente omesse dal racconto, strutturando le avventure narrate in un altro modo. Ciò che non sopporto sono i caratteri deboli come quello di Alice, ingenua fino alla nausea e sempre pronta a svenire.

Ad ogni modo, L'ultimo dei Mohicani è un grande romanzo, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche descritte prima del precedente paragrafo di sfogo. Ritengo che questo titolo vada conosciuto per l'opera letteraria e non solamente per il film più famoso tratto da essa.

lunedì 7 luglio 2014

Il cervello di Donovan

Il cervello di Donovan non è un romanzo molto facile da reperire, ma vale davvero la pena di cercarlo e di leggerlo con attenzione. Quest'opera di Siodmak è un classico della fantascienza, ma è scritta e si sviluppa come se fosse un “giallo”. Non capisco come sia possibile che non ci siano ristampe recenti!

Patrick Cory è un medico di trentotto anni che vive a Washington Junction, dove si dedica da anni (grazie anche all'aiuto economico della moglie, Janice) ad esperimenti sul cervello. Una notte avviene la svolta: un aereo cade poco distante dalla sua abitazione e Cory porta una delle vittime dell'incidente in casa sua per cercare di salvarla. Lo sfortunato viaggiatore, però, muore e il dottore asporta il suo cervello per collegarlo a dei dispositivi che gli permettano di vivere artificialmente. Sia la moglie che il vecchio collega Schratt disapprovano il suo gesto perché, oltre ad essere immorale, il cervello della vittima appartiene pure ad un uomo molto importante, e questo può causare parecchi problemi. Poco a poco l'organo asportato si ingrandisce sempre di più, riuscendo a connettersi con il cervello di Cory...

Lasciando da parte la trama avvincente, Il cervello di Donovan riporta in luce un dilemma che ha da sempre tormentato l'uomo: fin dove è possibile spingersi con la conoscenza? Essa ha dei limiti oppure no? Ai nostri giorni, con i passi da gigante fatti dalla tecnica, sembra una domanda banale, ma non è così e lo dimostra l'ampio dibattito etico che interessa filosofi, scienziati e teologi. Se fin dall'antichità (vedi l'Albero della Conoscenza in Genesi o il fuoco portato da Prometeo agli uomini) l'uomo è stato messo in guardia nell'indagare i segreti della vita e della morte (quelli che riguardano quindi la sfera “divina”) non sono questi dei moniti atti a porre dei limiti alla conoscenza per non arrivare a creare e/o subire gravi danni?

Questo piccolo capolavoro di Siodmak si legge in pochissimo tempo e coinvolge subito il lettore all'interno della sua trama. Come ho detto all'inizio, nonostante non sia facile da trovare, fate il possibile per procurarvene una copia. Ne rimarrete intrappolati!